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La coscienza di Montanelli

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La polemica sulla rimozione della statua di Indro Montanelli a Milano ci fa riflettere sui padri del giornalismo italiano e su come ci hanno raccontato il colonialismo.

Vittime della guerra italiana all'Etiopia

Vittime della guerra italiana all'Etiopia

Lo dico da giornalista e da discendente (anche) africano, nipote di una ragazza eritrea come Destà, la quattordicenne che Montanelli si è compiaciuto di avere comprato durante la sua avventura coloniale, insieme a un fucile e un cavallo. Nelle interviste l'ha definita più volte un “animalino docile” che lo seguiva ovunque, anche se si lamentava dell'odore sgradevole della ragazzina e dei difficili rapporti sessuali, a causa dell'infibulazione.

Un'esibizione tanto patetica di machismo non fa però del giornalista toscano un genio del male. Si finirebbe per sopravvalutarlo. Semmai lo assimila alla vigliaccheria dei tanti maschi italiani che andavano nelle colonie per sfogare le proprie frustrazioni sessuali e sfoggiare quella che oggi chiameremmo supremazia bianca, incoraggiati dalla retorica fascista sulla superiorità della razza.

Molti di quegli italiani hanno lasciato alle giovani eritree, che seducevano o prendevano con la forza, decine di migliaia di figli meticci, figli della colpa secondo la morale italica di allora. Ai meticci poi il regime negò ogni riconoscimento di legittimità e di cittadinanza con le leggi razziali del 1940.

E come descriveva Montanelli la guerra all'Etiopia? Per lui quel genocidio da oltre 200mila morti, sterminati anche con i gas vietati dalle convenzioni internazionali, era “una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola”. Il gran babbo era ovviamente Mussolini.

Le imprese belliche del sottotenente toscano in Africa Orientale sono raccolte nel libro XX Battaglione Eritreo, fatto pubblicare con orgoglio da papà Montanelli nel 1936.

Il figlio Indro descriveva così il proprio eroismo di fronte al nemico etiope: “C'era un branco di pidocchiosi che venivano avanti col randello e coi fucili che avrebbero fatto arrossir di vergogna un caporale di Franceschiello. La mitraglia, lì in mezzo, scavava come un piccone nella zolla fresca... quando finì andai a vedere i morti. C'erano arrivati a pochi passi e lì si ammucchiavano”.

Nella premessa al libro, alla ricerca di una nobiltà autoassolutoria, l'autore spiega: “Sono in Africa anche per ragioni letterarie... a cercarvi una coscienza di uomo... Ecco il mio profitto personale di guerra: una coscienza d'uomo”.

Finora la vera “coscienza d'uomo” sulla brutalità dell'Italia durante il colonialismo l'ha espressa quasi esclusivamente il giornalista e storico Angelo Del Boca, oggi novantacinquenne.

Dopo anni di studio e scavo negli archivi più nascosti, Del Boca ha rivelato all'Italia e al mondo che cosa è stata davvero l'occupazione italiana dell'Africa Orientale, senza moralismi né spirito polemico, ma stando ai fatti, ai dati, ai documenti, la verità cruda che dovrebbe guidare il lavoro serio del giornalista.

A lui però non sono state dedicate statue, né parchi.


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